di Fabrizio Monari

C’è una voragine di due anni nella vita e nella carriera di Jiri Kovar: un buco nero scandito da lampi accecanti di dolore, combattuti e alla fine sconfitti – letteralmente – con ogni mezzo. «Ricordo una conversazione avuta con Blengini nella primavera del 2016: mi chiese di andare in nazionale, mi toccò rispondergli che senza antinfiammatori e antidolorifici non riuscivo a stare in piedi per più di dieci minuti. Non riuscivo neppure a mettermi i calzini. I quattro interventi alle ginocchia e la doppia rottura del crociato mi stavano presentando il conto, tutto assieme». La diagnosi fu secca, instabilità vertebrale, e il responso medico ancor più terribile: l’allora due volte campione d’Italia avrebbe dovuto operarsi per installare una placca tra due vertebre che avrebbe azzerato la capacità elastica della sua schiena, costringendolo a ritirarsi ad appena 27 anni. «Non che ci fossero grandi alternative, almeno apparentemente» spiega Jiri. «Il mal di schiena col quale convivevo da mesi non mi dava scampo. Avevo ottenuto buoni risultati attraverso una drastica terapia antidolore: impulsi elettrici sulle faccette vertebrali, per sei mesi. Poi, all’improvviso, mi ritrovai punto e a capo: ogni volta che tentavo una rincorsa per l’attacco una fitta mi bloccava. Riprovai con gli impulsi elettrici: niente». E fu lì che intervenne «il colpo di culo», testuali parole del diretto interessato.

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