di Eleonora Cozzari
foto Marco Trabalza
È cresciuto in zona Piazza Napoli (traduzione per i non milanesi: centrale quanto basta), studia in Bicocca e tifa Milan. Sembrerebbe spiccicato l’ultimo fidanzato di tua cugina, quello che hai conosciuto all’aperitivo ai navigli. Ma no. Per fortuna di Trento, l’altra sera stava vincendo il suo personalissimo derby contro l’amico (interista) Romanò. Perché Riccardo è sì un milanese doc, ma fa il palleggiatore dell’Itas e in un colpo solo – che nel gergo di una giornalista significa nei primi cinque minuti di intervista – mette un freno ad almeno tre luoghi comuni: che la pallavolo si fa fuori dalle grandi città, che i giocatori frequentino di default Scienze motorie e che i milanesi siano di poche parole e pure un tantino snob. «Ma possiamo dire a Lucchetta che non sono di Segrate? Per un milanese non è bello». Ok, sul tantino snob possiamo lavoraci, gli dico. E ci facciamo delle grosse risate. Perché sulla simpatia è preciso il fidanzato di tua cugina. Che infatti studia economia, come lui. Classe 1998, sei stagioni a Milano, vice Simone Giannelli in nazionale. Riccardo Sbertoli è oggi l’alzatore più sorprendente della Superlega. Con il terzo posto dell’Itas in regular season, ha contribuito in modo sostanziale a sfatare il quarto luogo comune: che una squadra composta prima da atleti navigati e poi affidata a un manipolo di giovani, sia automaticamente “da ridimensionare”. A volte abbiamo aspettative altissime. Dare per scontata una medaglia olimpica, per esempio. Altre sottovalutiamo in maniera quasi offensiva scelte invece lungimiranti. Vai a capire perché. «Io lo sapevo che avevamo un bel potenziale. Quando ho firmato con Trento non avevamo mica vinto l’Europeo, ma far parte di una squadra di giovani era la mia sfida personale. Ne ero orgoglioso allora e lo sono oggi». Perché la Trento che al pronti-via in Superlega vince la Supercoppa e la nazionale italiana che assemblata in poche decine di giorni torna a casa con la medaglia d’oro, hanno diversi punti in comune: un allenatore con una visione, la diagonale di schiacciatori (anche se a Trento Lavia fa praticamente l’opposto) e lui, Riccardo. Ma andiamoci piano. Eravamo rimasti a Lucchetta che in tv lo apostrofa come il ragazzo di Segrate. Un motivo deve esserci, evidentemente. «Con il fatto che mio padre è stato un giocatore di pallavolo (nell’88-89 è arrivato a giocare in A2 a Brugherio, ndr) io ho iniziato presto. A dodici anni facevo parte delle giovanili di Segrate, appunto, che sono di primissimo livello devo dire. Lo dimostra il fatto che sono letteralmente passato da lì alla Superlega. Ho vinto il campionato di B2 e ho giocato in B1 prima di accettare l’offerta di Milano. Avevo quattordici anni e mi dovevo relazionare con gente di trenta, sei portato a crescere prima e di mio ero già abbastanza quadrato e molto rispettoso. Si aspettavano che fossi un ragazzino, invece non c’è mai stato bisogno che mi ricordassero che spettava a me raccogliere i palloni. Mi dicevano che ero un vecchio nel corpo di un bambino».
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