di Eleonora Cozzari
foto di Fiorenzo Galbiati
Penso a chi non ha fatto altro che schiacciare. O murare, o difendere o palleggiare. Entrare o uscire dai palazzetti, dalle sale pesi delle palestre di periferia, dagli autogrill durante le trasferte. Non ha fatto altro perché altro non gli era possibile essere. Altro, in quei giorni, in quel sangue, in quella testa – proprio no. Il che, sia chiaro, non è una colpa. Ma ci penso appena ci salutiamo, perché Davide invece, senza la vita che mi ha raccontato, senza prendere le distanze (proprio fisiche) dal mondo che siamo abituati ad ascoltare nelle storie di ragazzi come lui, non avrebbe potuto né schiacciare, né difendere, né murare. Lui senza essere altro non sarebbe stato neanche se stesso. Figurarsi. E allora mi sono ricordata la frase di un libro che ho letto di recente: “Per poter scrivere non bisogna prima di tutto, forsennatamente, vivere?”. Vale anche per chi schiaccia? Perché pensiamo che l’ossessione per qualcosa deve necessariamente essere totale per essere vera? Non è così per tutti. E di sicuro non per lui, che forsennatamente ha vissuto, durante la sua formazione. Lui che di cognome fa Gardini, particolare non di poco conto se decidi di giocare a pallavolo. Lui, che una mattina di febbraio mi ha detto: «A fine carriera tirerò le mie conclusioni, ma questi quattro anni credo che ne saranno valsi sempre la pena». Questi quattro anni in cui tutti ci siamo chiesti: ma che fine ha fatto il figlio del Gardo? Eccolo qua Davide Gardini, che oggi a Padova sta giocando un campionato pazzesco. E, con la maglia n. 1 che è stata anche del papà, è tornato a riprendersi l’attenzione che qualcuno credeva persa chissà dove. Invece quella passione che genera felicità, la “malatìa” che cantano i napoletani, lui non l’ha chiusa in una palestra, l’ha fatta attraversare dalla vita. E dubito che se ne pentirà.
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