di Eleonora Cozzari
foto Fiorenzo Galbiati
Il messaggio è del 16 giugno. Aveva mandato la sua rubrica per il numero che sarebbe stato in edicola luglio e agosto e chiedeva se andasse bene. Lo fa ogni volta, Miriam. Dopo il botta e risposta la saluto usando queste precise parole: “Forza capitano riportateci questa (ometto parolaccia) medaglia”. Me le sarei dimenticate, forse. O forse no, visto com’è andata. Ma mentre stavo preparando l’intervista, leggo una risposta che aveva dato in un’altra. Diceva: “Era scritto che dovevamo vincere. Non so perché. Salire sul gradino più alto del podio nella competizione più importante è e resta il nostro desiderio da brividi. Purtroppo, non è scontato: si è dato l’esito per calcolato, però i risultati non sono matematica. La medaglia era da vincere, non da prendere”. Da vincere, non da prendere. La rileggo almeno due o tre volte. E mi torna in mente il messaggio. Appena il telefono squilla da Londra (io) a Conegliano (lei) glielo dico subito: “Miriam, hai ragione. L’abbiamo data per scontata in tanti”. Vi risparmio il resto, non importa. Quello che invece lo è, sono quelle otto parole con la virgola in mezzo: la medaglia era da vincere, non da prendere. Comincia così la chiacchierata con Miriam Sylla, capitano della nazionale italiana otto mesi dopo quel messaggio, sei dopo i Giochi e cinque dopo l’oro europeo. Poi non dite che i giornalisti raccontano solo quello che gli fa comodo. L’appuntamento telefonico è nella settimana che segue la sconfitta in campionato con Monza. Sarebbe particolare poco rilevante se non fosse che ogni sconfitta di Conegliano, da due anni e mezzo a questa parte, sia assolutamente un evento inimmaginabile, quantomeno in Italia. Invece succede. «Ma noi lo sappiamo che non è impossibile e che l’Imoco non può vincere sempre, è come il discorso di Tokyo, dove stava scritto che sarebbe andata sicuramente bene?».
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