di Eleonora Cozzari

La prima volta che sono andata a intervistarla portava l’apparecchio ai denti e viveva in una cameretta al primo piano del centro Pavesi. Era il 2017 e lei aveva 18 anni. Mi avevano detto che parlava poco, che era lunatica e volubile (e lo direbbero anche adesso). Così mi presentai con un registratore. E io non li uso i registratori. Ma se parlava poco, non dovevo perdermi neanche una parola. Non servì. Mi piacque subito, invece. Forse perché smentì con un sorriso e un fiume di racconti tutte le voci che giravano già sul suo conto. Sarebbe diventata una costante da lì in avanti. Spiccicarsi le etichette che di volta in volta si ritrovava addosso. Aveva già disputato un’Olimpiade, merito e colpa dell’allenatore che la buttò nella mischia, quel Marco Bonitta così controverso per la pallavolo femminile. Ma non era ancora Paola Egonu. Era Paoletta e giocava al Club Italia, a discapito dei suoi centimetri e della potenza. Della velocità del braccio e dell’elevazione. Era Paoletta, a dispetto dei record che già bruciava (46 punti in una partita allora, 47 oggi) e di quello che sarebbe diventata appena qualche anno dopo: la Divina della pallavolo, che buca i confini di un palazzetto, guarda le telecamere facendo monologhi in trasmissioni televisive e va ospite a sfilate di moda e talent show perché riconoscibile, unica, di tendenza.

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