di Eleonora Cozzari
foto di Maurizio Anatrini

Mi è stato chiaro appena l’ho vista per quella che è: una giovane, talentuosa, esordiente. E ho pensato: su di lei abbiamo completamente sbagliato angolazione. Noi, voi, tutti. Non spettava a lei far cambiare approccio a Paola Egonu solo perché in nazionale ora c’era una rivale nel suo ruolo. Come non spettava a lei far vincere l’Italia giocando in posto quattro, modello Turchia di Santarelli. Che se va bene per Karakurt e Vargas, perché non dovrebbe esserlo per noi. Per non parlare dello spogliatoio. Troppo Egonu centrico. Lei, si diceva, l’avrebbe bilanciato. Lei, lei, lei. Peccato che lei, Ekaterina Antropova, quando questi discorsi affollavano l’estate pallavolistica azzurra, non aveva ancora neanche il permesso di giocarci, in maglia azzurra. Letteralmente, Kate, non era mai scesa in campo neanche una volta con l’Italia (come con nessun’altra nazionale) ma l’Italia, per tutti, doveva già salvarla. Assurdo come ci facciamo abbagliare, a volte. Invece, a 20 anni, l’unica cosa che doveva fare era godersi l’esordio come chiunque arrivi per la prima volta in nazionale e fare del suo meglio. Tutto il resto no, non era compito suo. Chi lo dice, chiederete? La sua storia. Cominciamo dall’inizio. Quando Ekaterina Antropova – con l’accento sulla prima o – si è trovata per un paio d’ore davanti a me nella sala riunioni della Savino del Bene, ho notato che il suo livello di italiano è decisamente alto, per una ragazza arrivata nel nostro Paese nel 2017. Quando però nel gesticolare, ha involontariamente colpito la sua borraccia riprendendola giusto un attimo prima che cadesse dal tavolo e una mezzora dopo, sempre per muovere le mani, ha rovesciato completamente la tazza di tè che aveva davanti, mentre tentava di togliersi dall’imbarazzo le ho detto: “gesticoli da perfetta italiana”. Lei ha sorriso e mi ha risposto: «L’Italia mi ha aperto il mondo».

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